INSTIGATOR-IN-CHIEF: [D’ANNUNZIO] IL ‘POETA ARMATO’ E LE PAROLE CHE BRUCIANO.

[LA RETORICA POLITICA DI RABIA E DI FUOCO]

Autore: Pablo Sánchez Chillón.

«Vieni a Fiume d’Italia, se puoi. Qui c’è oggi l’aria più risonante del mondo. E l’anima del popolo è sinfonica come la sua orchestra». [Gabriele D’Annunzio ad Arturo Toscanini, giugno 1920].

Non è un eroe sul più alto degli altar italiani della patria. Non è neanche un personaggio ordinario o convenzionale, anche se molte volte ha abbandonato l’Olimpo elevato della sua brillantezza per scivolare, senza freni, nelle fogne della sua misera condizione umana. Nel marzo del 1938, 85 anni fa, veniva sepolto nel suo catafalco marmoreo a Gardone Riviera, il più grande impostore che la politica europea abbia mai conosciuto negli ultimi due secoli.

Scrittore originale e brillante, esquisito drammaturgo, maestro dell’oratoria più infuocata, poeta eccentrico, demagogo e ricattatore sentimentale, e alchimista piro-maniaco delle parole, Gabriele D’Annunzio sarebbe stato oggi, senza dubbio, uno degli icone pop più celebrati in quest’era di politica spettacolarizzata in cui ci è capitato di vivere.

Artista di un’opera letteraria eccezionale, D’Annunzio ha fatto delle parole, della loro combinazione, del loro intreccio e della loro proiezione verso gli altri, un mestiere che è stato, in modo singolare, un’arte di vita unica e il fondamento di una presenza pubblica ubertosa e paradossale. Non a caso, lo scrittore, che ha usato queste parole per intrattenere e stupire i suoi lettori, ha gradualmente ceduto il posto al politico originale, al seduttore galante e all’oratore magmatico e affascinante che le ha utilizzate per sedurre e spingere i suoi compatrioti verso un crogiolo di violenza politica mediata dall’estetica, calice dal quale avrebbe bevuto, anni dopo, il Fascismo italiano.

Per coloro che non lo conoscono bene, qualche riga introduttiva: Il Vate, come era conosciuto in quell’Italia combattiva dei primi del Novecento, racchiude alcune delle esuberanti qualità che la fisica dei materiali riserva solo alle gemme e ai diamanti più preziosi, quegli articoli costosi, sofisticati e morbidosamente desiderabili il cui splendore ha mosso, come poche cose nella storia dell’umanità, alla guerra, l’usurpazione e la spoliazione dell’altro, pulsioni in cui D’Annunzio, spadaccino, erotomane, demagogo e imbroglione eccellente e talentuoso, si è distinto come pochi.

Poeta decadente di fama internazionale diventato, manu militari, ardente leader del movimento irredentista italiano, cocainomane tenace, opinionista frondoso e capriccioso, collezionista dei gadget più costosi ed esclusivi che pagava quasi mai ai suoi fornitori, esteta sublime, pioniere dell’aviazione e dell’agitprop con i suoi temerari rally aerei (Il folle volo) in volo basso sulla Vienna imperiale, in cui liberava volantini con la bandiera italiana esortando i sudditi imperiali alla resa.

D’Annunzio, il dipsomane e fornicatore insaziabile, totem del nazionalismo italiano, politico opportunista, poeta capriccioso e viziato, amato da un paese effervescente in via di unificazione, è stato il giocattolo rotto e costoso nelle mani del fascismo imminente che ha riconosciuto il suo spirito esaltato e ha saputo neutralizzarlo politicamente coprendolo d’oro per soddisfare i suoi vizi e nutrire la sua malinconia. Gabriele, il poeta di Pescara che fu, soprattutto, un personaggio estremamente originale ed eccessivo, di cui Lenin arrivò a dire, dopo il colpo di mano che lo portò a recuperare la città di confine di Fiume per l’Italia e trasformarla in un paradiso di libertari, che era «l’unico rivoluzionario d’Europa».

D’Annunzio, l’influentissimo e coltissimo letterato monocolo (perso un occhio in azione bellica nella Grande Guerra), il rapsodo che si autodenominava «Duca Minimo» in un brillante esercizio di artificiosa immodestia alla quale aveva abituato i suoi compatrioti, era soprattutto un seduttore nato, un edonistico irresistibile per i suoi contemporanei e il miglior pubblicitario di sé stesso, capace di portare a termine le sue audaci imprese e di trasformarle in testimonianza di una vita ardita e di un’esistenza audace ed emozionante al servizio della gloria del paese alpino. Come molti altri che lo hanno tentato invano dopo di lui con meno talento, più mezzi e migliori tribune di quelle frequentate dal nostro personaggio, D’Annunzio, l’imbroglione goloso e spietato che poteva perdere il nord per il posteriore di una signora, per una spilla dorata o per un tessuto di organza, lavorò con impegno per creare e ricreare quell’artefatto meraviglioso e rifulgente che fu la propria esistenza, elevandola alla categoria di sublime opera d’arte.

D’Annunzio, il poeta della virilità, il pornografo sfacciato e apostolo dello stile capace di alternare la sua brillante oratoria e i suoi buoni modi nei saloni galanti con il pesante rumore degli stivali e il nauseabondo cibo delle trincee, ha saputo pulsare ed eccitare con le sue parole l’anima ferita di una giovane Italia che, pur trovandosi a Versailles tra le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, si sentì trascurata e maltrattata dalle intese che gli Alleati imposero nella Sala degli Specchi del palazzo parigino, in cui il paese alpino si vide riflessa la sua irrilevanza nel concerto delle nazioni. A Parigi il paese perse il diritto di reclamare i territori irredenti (italiani e «non recuperati») della Dalmazia, dell’Istria e della costa austriaca, ponendo le basi e i fondamenti del mito risuonante della «Vittoria mutilata» italiana, che presto avrebbe servito come benzina e pretesto bellico per il nazionalismo più intransigente e di motivazione palese per l’espansione coloniale stravagante portata avanti da Mussolini anni dopo.

All’alba del Novecento, in questo contesto di ostilità collettiva, all’inizio della comunicazione di massa, in questo scenario di collusione tra avanguardie, rivoluzionari da caffè e redattori astuti di manifesti e proclami, Il Vate, nella sua vertiginosa corsa verso l’immortalità per sentieri meno convenzionali di quelli offerti dalla letteratura, divenne presto la più grande e singolare minaccia per l’ordine politico liberale italiano in declino, che sommerse con un’abbondanza di versi e metafore insultanti, e alla fine inondò con un fiume fragoroso di parole intelligentemente dirette come frecce al cuore di un’Italia orgogliosa, ferita e ingannata.

Molte decadi prima che i nostri schermi e la nostra tranquillità venissero disturbati dai discorsi prevedibili e dalle retoriche poco scrupolose dei negazionisti, degli offesi e dei demagoghi onnipresenti, e che la verità fosse messa in vendita dai pulpiti stridenti di quella internazionale populista che alla fine ha collegato, attraverso cavi elettrici pelati, l’Ungheria di Orban, la Russia di Putin, gli Stati Uniti di Trump e il Brasile di Bolsonaro, D’Annunzio, il «Poeta Armato» al culmine della sua popolarità, ha saputo utilizzare, a proprio vantaggio, l’enorme potere mobilizzatore di ciò che si dice, di ciò che si crea e si ricrea con il linguaggio per infiammare un paese e mettere in crisi un intero sistema politico.

Dalle parole all’epopea finale.

Gli eroi del Risorgimento italiano fecero l’Italia’ , e ora bisognava fare gli italiani, compito che fu affidato al poeta e condottiero tramite la via dell’estrema polarizzazione e della forza incontenibile della sua verbosità, che elogiava la bellezza lirica del sacrificio e dell’atto sublime della spargimento di sangue per la patria, esibendo le sue doti di eccellente mago dell’oratoria e il suo carattere di precursore della sentimentalità politica e del potere trasformatore e mobilizzatore delle parole sulle masse, che lo hanno reso l’annunciatore di un’era di spettacolarità pubblica che si è cotta fino a dorarsi in quel fuoco di passioni che fu l’Europa tra le due guerre.

Con l’artiglieria metallica e pesante delle parole, con il candore drammatico della sua intonazione e la maestria nella declamazione pomposa e bellicosa, D’Annunzio riuscì ad erodere le fondamenta della democrazia liberale italiana, a cui attribuiva le disgrazie del paese nel dopoguerra, una nazione insignificante nel concerto delle potenze internazionali emerso dopo la conferenza di pace di Parigi, e alla quale la geopolitica e la dottrina predominante del diritto all’autodeterminazione dei popoli del Presidente Wilson tolse alcune piazze di indiscussa italianità, come quella città di Fiume (poi, Rijeka), che passò a far parte del neonato Stato jugoslavo.

Fiume o morte.

Come se fosse un martire in cerca dell’eternità che il sacrificio sul patibolo o la fiamma alimentata dagli intransigenti forniscono, D’Annunzio, a cavallo della sua loquacità e del suo verbigerare punteggiato da emotività e bellezza, andò incontro a Fiume, «la Città Olocausta» nell’immaginario febbrile del poeta, all’episodio storico con cui culminare la sua tenace sfida al sistema e raggiungere la perfetta sublimazione pubblica di quella vita come opera d’arte a cui si dedicò.

La sua implacabile vocazione alla posterità, l’inattività delle forze armate con cui si scontrò nel suo viaggio verso Fiume e un po’ di quella fortuna che accompagna quasi sempre le gesta più inaspettate ed extravaganti dell’umanità diedero legittimità ad una mossa audace e senza spargimento di sangue che provocò il 12 settembre 1919, la conquista della città da parte della colonna di 287 uomini guidata dal poeta in nome di un’Italia umiliata nelle trattative di Parigi.

Il successo dell’impresa di annessione informale di Fiume all’Italia non impedì al governo liberale di Roma, consapevole del fattore destabilizzante interno di questa epopea e dell’enorme conflitto diplomatico che l’azione guerrigliera drammatica le causava nei confronti dell’emergente Società delle Nazioni, di inviare il suo esercito per sottometterla con la forza, circondandola per quei 15 mesi in cui divenne un’icona universale della resistenza libertaria.

La pomposa e popolare invasione di Fiume – Città di Vita, come fu chiamata successivamente dal Poeta – a cavallo tra la buffonata e la ribellione militare, che durò per più di un anno con i suoi abitanti ciecamente impegnati nella causa promossa dal Poeta e sostenuti da un’economia di guerra e da spettacolari azioni di pirateria nell’Adriatico, portò, in termini materiali, alla cosiddetta Carta del Carnaro (la Costituzione più progressista del suo tempo) e all’istituzione di una Repubblica indipendente dal Regno d’Italia, che, costituita come esperienza di governo alternativa a quella proposta dai teorici dello Stato liberale o del socialismo, finì per attrarre a Fiume molti avventurieri europei sedotti dalla personalità di D’Annunzio, dalle insegne del libertinaggio e dall’autenticità della città e dall’eccezionale opportunità di far parte di un esperimento politico senza precedenti, vissuto in quello che ora chiameremmo tempo reale, anche se questo uccide la retorica e neutralizza, tra i video di Tik Tok e i tutorial di autocontrollo, le passioni più ardenti che stanno dietro alle utopie e ai loro ferventi protagonisti, sostituendole con frasi imprese su tazze e balli studiati.

Questo episodio di annessione illecita di un territorio da parte di una banda riunita intorno al carisma di un patriota autore di best seller, qualcosa di simile – e so che il confronto non è del tutto onesto, in verità – come se ai nostri giorni, un Pérez Reverte ovvero un Vargas Llosa guidassero una banda di festaioli armati da Cadice a Gibilterra, fece sì che Fiume e l’epopea della sua resistenza contro l’esercito italiano – fratelli di sangue – diventasse un simbolo globale dello spirito rivoluzionario e un laboratorio politico in cui convivevano, al calore dell’aura affascinante e delle arti magnetiche del poeta, una moltitudine di disertori e veterani di guerra assetati di adrenalina con un crescente flusso di praticanti di yoga, nudismo, amore libero o macramé che arrivavano, con il passare dei mesi, in quella Babel esaltata e libertaria sulla costa dalmata.

Parole e più parole.

Tempo dopo questo discorso di fuoco e guerra, l’abuso della semantica intenzionale e ingannevole del sacrificio e dell’ode fittizia all’estetica della spargimento di sangue, arrivarono le carezze e il conforto delle conversazioni intorno al fuoco, le conversazioni radiofoniche intorno al camino di Franklin D. Roosevelt dopo la Grande Depressione, le proclamazioni agguerrite e nervose di Hitler a Norimberga, la salmodia orgogliosa e rauca di Churchill nell’ora più buia dal suo War Cabinet, gli echi delle voci di Martin Luther King in quell’America eccitata della lotta per i diritti civili, i discorsi di Obama – yes, we can – alla prima convention democratica, il discorso di Steve Jobs agli studenti di Stanford e persino il «Iniesta della mia vita» di José Antonio Camacho, l’allenatore della nazionale spagnola di calcio, con quella frase dopo il gol segnato alla finale della Coppa del Mondo in Sudáfrica che uní tutto un paese sotto il frastuono acuto delle vuvuzelas.

Poi anche arrivarono, mosse dai luoghi comuni e stereotipati della sfera digitale, le discorsi a 0’60 euro e l’agitazione degli algoritmi e del targeting di pubblico al servizio di quei cantastorie senza libri che sono Donald Trump o Bolsonaro, le parole prive di idee dietro che ci portarono le inquietanti invasioni barbariche dei centri di potere di Washington e Brasilia, anche se, a differenza di quel D’Annunzio incastonato tra le truppe irredentiste che prese Fiume, questi moderni Instigators-in-Chief della sommossa golpista che ci ha tenuti col fiato sospeso nel gennaio del 2021 e del 2023, si sono nascosti dietro le persone impressionabili, dietro la massa informe, pittoresca e armata di manipoli e bastoni selfie a cui hanno mandato provvisti di corna di bisonte, magliette con messaggio e occhiali per visione notturna per sovvertire l’ordine costituzionale dei loro paesi.

Spoiler: Fiume cadde in modo repentino il giorno in cui D’Annunzio arrese la città assediata e bombardata dai suoi connazionali della Marina Reale, con i suoi coloni e salvatori dispersi senza punizione ai confini di un’Italia convulsa e polarizzata.

Il Vate (o lo saltimbanco emotivo come lo definì Benedetto Croce anni dopo) cedette al suo stesso personaggio, vittima dei suoi vizi, della sua scomoda elevazione agli altari di un fascismo che disprezzò per essere rozza e volubile, e prigioniero del male della malinconia che lo portò a costruire quel parco tematico-mausoleo dell’epopea fiumana, quel tempio laico che è il Vittoriale degli Italiani, eretto all’altezza del suo mito e della sua arroganza e in cui è sepolto insieme ad alcuni dei suoi valorosi legionari e arditi, su un pendio con vista panoramica sul bellissimo Lago di Garda.

Allora, come oggi, le parole pubbliche e pubblicate contano e continuano a spingere verso l’impossibile, il proibito o la violenza politica contro tutto e tutti, anche se l’effetto della loro posologia è molto più prevedibile e meno brillante tra di noi che in quella Europa del Novecento. Non a caso, gli imbroglioni e gli emuli del D’Annunzio più pericoloso e nocivo si nascondono oggi tra i tweet, i bot maligni e il tempo e il rumore di quelle campane di risonanza superficiali che sono i social network.

Nessuno sale più sul piedistallo delle statue per arringare i propri cittadini, ma le parole, i sentimenti e lo spettacolo continuano a essere armi da lanciare, materiale infiammabile e puro allestimento per i falsari, i piromani e gli impostori, anche se ora distorcono il linguaggio inclusivo, la monotonia ignorante del reggaeton, le intenzioni dolose e perenni dei populisti e la salmodia tardo-conventuale dei ciarlatani della cultura della cancellazione.

Fiume? Dammi follow o morte.

Deja un comentario